Il superfluo e il reddito di cittadinanza
Stavolta prendo a prestito il titolo di un vecchio editoriale di Mattia Feltri su La Stampa. Partendo da uno spunto polemico e pungente, Feltri articola una riflessione solo apparentemente banale e controcorrente. Quando una persona è povera, cosa la aiuta – anche moralmente – a stare meglio e riconquistare la dignità che l’indigenza le ha fatto perdere?
Feltri cita, vai a leggerlo nell’immagine che ho inserito qua sotto, l’esempio di un famoso giornalista che, alle donne di Sarajevo, portava creme e profumi.
Ma come? Cosmetici e non scatolette di tonno? Di primo acchito ti viene da scuotere il capo. E ripensi alle battute sul reddito di cittadinanza, a quale sarà il confine tra spese immorali e spese approvate dal Grande Fratello Elargitore.
Ma qui non mi interesso della misura assistenzialista del governo gialloverde, che comunque considero totalmente sballata sia dal punto di vista economico (sostenibilità ed effetti futuri) sia da quello etico e morale per il messaggio che trasmette in patria (a chi ne usufruirà ed a chi la pagherà) e all’estero.
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Voglio invece tornare sul concetto in controtendenza, su quel briciolo di superfluo che può servire a riconquistare un pizzico di dignità.
Perché, leggendo Feltri, mi è tornata in mente una mostra su cui sono… inciampato per caso quest’estate, nel chiostro della Basilica di Sant’Antonio di Padova. Si chiamava “Camminamente” di Antonio Gregolin, e metteva in mostra scarpe che parlano di cammini e, attraverso di esse, cammini che raccontano storie. 50 paia di scarpe esposte, di camminatori del mondo, esploratori, sportivi, personaggi famosi e non, ma egualmente significative.
Le scarpe di Sarajevo
Tra tutte, una delle storie che più mi hanno colpito dell’esposizione era quella di una signora di Sarajevo. A fianco di un paio di consumatissime e rovinate décolleté beige col tacco basso, di una nota griffe italiana di moda (non mi ricordo più quale), c’era il racconto della vicenda, e di quelle scarpe firmate.
Sono un giornalista, mi occupo di comunicazione e di uffici stampa.
Durante la guerra in Bosnia (1992-1995), questa donna affittava una camera del suo appartamento a Sarajevo ad un famoso giornalista italiano che seguiva il conflitto. Non so se sia lo stesso Sofri citato da Feltri, non lo escluderei, ma non è così importante. Il giornalista, ogni volta che arrivava dall’Italia, le portava qualcosa e, un bel giorno, si presenta con queste scarpe meravigliose e costosissime, perché aveva capito che la dignità di chi tira la cinghia e rischia la pelle, schivando i bombardamenti per rimediare qualcosa da mangiare, non si nutre di solo pane.
La donna, commossa, cominciò ad indossare quelle scarpe belle e costose ogni giorno, per sfuggire alle bombe correndo raso i muri e buttandosi al riparo per evitare le pallottole dei cecchini. Ma, soprattutto, per sentirsi più viva. E di nuovo se stessa.
Finita la guerra, tornata la calma a Sarajevo, anche se quelle scarpe erano sfondate e distrutte, la donna non le buttò, perché in quel periodo atroce avevano, per lei, rappresentato la speranza e la dignità.
E, per uno di quei clic che avvengono nell’animo umano, si erano trasformate da accessorio superfluo per il guardaroba di una ricca signora a faro di speranza e segnale di vita.
Adesso, come la mettiamo?
Beh, anche se un pochino mi viene ancora da scuotere la testa, mi sa che Feltri, Sofri e quella coraggiosa donna di Sarajevo hanno ragione…
(photo by Mauro Tosetto, mostra "Camminamente", chiostro S. Antonio, Padova) (immagine dell'articolo di Mattia Feltri, La Stampa del 5 ottobre 2018, pag. 1)
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