Il tizio in cassa davanti a me ha bofonchiato qualcosa alla cassiera, imbarazzato.
Lei gli ha detto a che cifra era arrivato il conteggio. Lui allora ha spostato al di qua del nastro una lattina di birra, una busta di insalata e una grossa pagnotta.
“Queste non le posso comprare”, ha detto.
Nel suo cattivo italiano, zoppicante, marchiato da un pesante accento dell’Est, ha spiegato che aveva solo 20 euro e li ha buttati sul piano di alluminio, accartocciati. Ha aggiunto, con un sorriso timido, che la moglie gli ha dato ordini precisi su cosa comprare e che se c’era qualcosa che eccedeva quella cifra lo doveva lasciare. Non aveva un euro di più.
“Le rimetto a posto?”.
“No no, tranquillo, ci penso dopo io, non ti preoccupare”, gli ha risposto la cassiera con grande cortesia e un pizzico di imbarazzo.
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L’ha ringraziata con occhi che non saprei definire – tra il vergognoso, lo stanco e l’orgoglioso – poi ha ripreso ad infilare in un vecchio zaino combat, dismesso da chissà quale ragazzino nostrano in chissà quale stagione modaiola passata, il resto dei viveri, verdura e carne.
La cassiera, di una gentilezza quasi irreale, ha provato a rifargli i conti, a controllare ancora il prezzo della pagnotta e dell’insalata, per vedere se potevano starci nel 20 euro, ma non c’era niente da fare.
Il tizio in cassa davanti a me ha 50 anni mal portati, le mani grosse e callose, le unghie sporche di grasso da tornio, di ponteggi e betoniera. Continua a riempire lo zaino senza alzare la testa.
Puzza, anche da lontano. Emana quell’odore acre e pungente di chi si è alzato alle 4 del mattino e sgobba come mulo da ben prima dell’alba. Di chi ha sudato come un pazzo nel maglione rosso con i buchi sui gomiti. Puzza come chi non ha tempo di riposare, facendo colazione con la brioche al kamut integrale e la centrifuga di frutta tropicale. Come chi non si ferma mai, anche se ha un po’ di influenza e vorrebbe starsene a letto, chi tira il fiato solo quando va a pisciare dietro la baracca del cantiere, cinque minuti ogni mezza giornata.
Anche oggi ha sudato tutta la sua stanchezza in un vecchio giaccone nero, con il logo di una squadra di calcio locale ricamato sul petto, nel quale si rinchiude. Chissà chi glielo ha regalato, chissà quanta strada ha fatto.
Sono un giornalista, mi occupo di comunicazione e di uffici stampa.
Il tizio in cassa davanti a me se n’è andato, col suo zaino da 19 euro di roba da portare alla moglie perché prepari da mangiare per tutta la famiglia, pensando alla pagnotta lasciata alla cassiera, alla vergogna, alla birra che stasera avrebbe sorseggiato tanto volentieri.
Ho pagato velocemente le mie due cose e sono uscito.
L’ho trovato davanti alla rastrelliera, che stava armeggiando con la sua bicicletta. Ci sarebbe salito per tornarsene a casa e concludere la sua giornata di fatica abituale, condita dall’ennesima amarezza di chi ha tanta dignità ma pochi euro, in una società che ti giudica sempre troppo presto. Sempre per quelle quattro metriche, spesso sbagliate. I soldi, i soldi, i soldi. E il censo.
È una storia semplice e minuta, questa. Una piccola storia del quotidiano di ognuno di noi, come tante su cui inciampiamo continuamente, senza nemmeno rendercene conto, senza nemmeno che le vediamo più.
Perché te l’ho raccontata?
Perché in questa Italia, sempre troppo pomposa e parolaia, prima di giudicare (non importa da che parte stiamo e quale credo vogliamo portare avanti) dovremmo metterci nei panni degli altri.
Salendo su una bicicletta scassata e pedalando in una gelida sera d’inverno di un paese straniero, avvolti nel giaccone sudato di una squadretta di provincia.
Sono un giornalista, mi occupo di comunicazione e di uffici stampa. Per conoscermi meglio basta un clic.
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